lunedì 18 dicembre 2017

Il libro del mese – "Mia madre è un fiume" di Donatella Di Pietrantonio

"Mia madre è un fiume. Erano un fiume i suoi capelli scuri e sottili che la corrente divideva ai lati del viso, onde a cascata sul seno, li pettinava la sera, dopo tutte le fatiche. Camminava e cantava, il fiume a fluttuare nel vento, ma solo qualche volta, di solito li raccoglieva in una crocchia. Intorno ai trent'anni tagliò i capelli per sempre, divennero insignificanti, pratici.
Era un ruscello. Ne scorreva uno non lontano da casa sua e nelle più serene notti d'estate apprezzava la cascatella dalla finestra aperta, mentre i cani stavano zitti.
È un fiume di vecchi ricordi salvati, che ripete a tutti. Ci si afferra forte perché la sua storia non deflagri. Restano pochi, adesso. Mi occupo della sua supplenza, sono il suo scriba.".
"Mia madre è un fiume", l'esordio del 2011 della scrittrice abruzzese Donatella Di Pietrantonio, è un romanzo di forte impatto emotivo, il racconto di un rapporto tra madre e figlia, denso di suggestioni poetiche, sospeso tra i timori di un futuro incerto, segnato dalla malattia della madre, e le malinconie e i rimpianti di un passato da ricostruire nella memoria.


Il loro è un amore che "è andato storto, da subito", un rapporto che ha attraversato diverse fasi, con una madre sempre dedita al sacrificio, che non è riuscita a trovare il tempo o forse non ha avuto la volontà di stare vicino alla sua bambina; una figlia che trasforma il desiderio di cercare sua madre, di stringersi al suo "odore di contadina giovane e sana", in un rifiuto ribelle, specialmente quando la madre inizia a divenire più autoritaria e opprimente, in preda a un ansioso bisogno di controllo.
La figlia, ormai diventata adulta, avrebbe voluto affrontarla, fare i conti con il passato, ma la madre le sfugge, scivola via in una malattia tremenda, un'atrofia cerebrale che le consuma pian piano il cervello, i ricordi, le capacità, la propria identità, la vita stessa. E adesso tocca alla figlia assisterla e soprattutto raccontarle ogni giorno di quel passato che sembra fuggire via, aiutarla a ricostruire un'identità che si sta man mano sfaldando.
Il racconto non si basa, quindi, su di un impianto narrativo classico, ma è un flusso di pensieri e ricordi che va avanti e indietro nel tempo e che non può che partire dal principio: "Ti chiami Esperia Viola, detta Esperina. Come una viola sei nata il venticinque marzo millenovecentoquarantadue, in una casa al confine tra i comuni di Colledara e Tossicia".
Il romanzo è privo di qualsiasi discorso diretto, di dialoghi propriamente detti. È la figlia che parla, in un monologo continuo che ci restituisce le parole e le sensazioni di sua madre, facendole emergere da una mente quasi smarrita, che fa fatica a orientarsi nello spazio e nel tempo.
Lo stile della Di Pietrantonio è sobrio, privo di manierismi, incisivo, ma capace, comunque, di rappresentare efficacemente la realtà contadina abruzzese, tra immagini poetiche e musicali di uno scenario naturale unico, un linguaggio particolare che ripesca numerosi termini dal dialetto, descrizioni, a volte brutali e crudeli, di una vita di campagna faticosa, stremante, a volte frustrante.


Il racconto della figlia ricostruisce luoghi, episodi, personaggi che hanno fatto da sfondo alla vita di sua madre e poi alla sua: i genitori di Esperina, con il padre Fioravante, che inizialmente riesce a vedere le sue figlie solo durante le licenze di guerra, il suo carattere autoritario, il desiderio di portarsi avanti nella conquista della modernità, di far studiare le sue bambine, mandandole a scuola e comprando loro libri, emancipandole dall'analfabetismo. E poi il rapporto tra Esperina e le sorelle, fatto di complicità e dispetti; le lunghe passeggiate nei boschi per arrivare a scuola; l'amore con Cesare suo cugino; i matrimoni, i riti, le credenze; la faticosa vita di campagna, l'emigrazione, la lunga lontananza da casa dei maschi della famiglia per cercare lavoro in Germania; le angherie dei padroni verso i mezzadri. Un patrimonio vitale di ricordi e suggestioni nello scenario di una natura vivida, rigogliosa, ma spesso crudele verso i contadini che cercano faticosamente la loro indipendenza economica.
La figlia si rivolge direttamente alla madre quando rievoca il passato, cercando di ricostruirlo rinsaldandone i ricordi. Ma poi parla di Esperina in terza persona quando, timorosa e angosciata, ne analizza la malattia: "Mi guardo intorno con gli occhi di mia madre. La casa diventa estranea ostile. Nasconde, fa i dispetti, non è sicura. La abita una forza maligna che crea disordine e le comanda cose strane.". È combattuta tra un'ostilità che ancora affiora, un odio per un rapporto fatto di contrasti mai risolti e non più affrontabili, e la paura di perderla e di osservarla mentre si smarrisce nella nebbia che le avvolge la mente; tra il timore che anche il suo futuro possa essere segnato dalla stessa malattia e i sensi di colpa per la sua incapacità di darle ciò di cui ha bisogno: "Quando morirà sprofonderò nella colpa che mi vado costruendo giorno per giorno. Sarà pronta per il suo funerale. La colpa è vuota. È il vuoto delle mie omissioni. Ometto l'amore, le mani. La cura di cui più ha bisogno, lascio che le manchi.".
"Mia madre è fiume" è, quindi, un romanzo bellissimo, che mi colpisce per la profonda capacità di analizzare il rapporto tra le due donne senza trascendere in una artificiosa pateticità o nell'affettazione, con uno sguardo che a volte può apparire cinico, duro, ma da cui emergono sensazioni autentiche, pur se dolorose e destabilizzanti.


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