lunedì 26 febbraio 2018

Conflitti e paure di una giovane famiglia

"Lei guardò il ragazzo e il figlio che aveva appena partorito spalancando i suoi occhi chiari lucidi di pianto; li guardò come mai prima di allora aveva guardato, e per un ultimo istante al mondo non furono che loro tre".
"Quella solitudine immensa di amarti solo io", l'opera prima di Paolo Vitaliano Pizzato (Editori Priamo e Meligrana), è un romanzo intenso, intimo, fortemente introspettivo, che tocca le corde dell'anima con quella delicatezza di chi arriva in punta di piedi, ma con la sua sensibilità letteraria riesce sempre a lasciare il segno. Anche se con le successive opere Paolo ha raggiunto una diversa maturità stilistica, non posso non sentirmi legato a questo suo primo romanzo (in ordine di pubblicazione), che contiene il germe essenziale della sua scrittura.
La trama è, in apparenza, semplice: due giovani hanno appena avuto un figlio, ma la felicità di tale evento viene ben presto oscurata dal timore di non essere in grado di diventare bravi genitori, una paura che sembra bloccarli anche di fronte a banali imprevisti, come il pianto improvviso del bimbo o le difficoltà della madre nel dargli il latte. Sono timori dietro cui si celano conflitti mai risolti con le rispettive famiglie, che tornano di frequente a tormentarli.


Quella di Pizzato è una scrittura accurata nella scelta dei termini, nelle descrizioni degli ambienti, filtrate attraverso lo sguardo attento del protagonista, nella costruzione delle frasi sempre fluide ed eleganti, una scrittura che nello stesso tempo denota anche una forte istintività, una spontaneità che trasuda da ogni pagina: l'autore si dà completamente, con assoluta trasparenza rivela il suo mondo interiore, mostra la sua visione delle cose, spesso disillusa e disincantata, una visione che viene trasfusa nei suoi personaggi principali, colti nelle loro fragilità e paure, smarriti lungo il percorso alla ricerca di se stessi e della propria identità.
I protagonisti, i genitori del piccolo Cristiano, sono tratteggiati in tutta la complessità del loro carattere. Il padre, chiamato semplicemente "il ragazzo", è un giovane introverso che mostra una grande attenzione per i dettagli, in una sorta di ossessione per l'ordine, e nutre una forte passione per i libri, passione che vorrebbe trasmettere anche a suo figlio.
La sua vita è continuamente attraversata da dubbi e paure, che lo bloccano e gli impediscono di credere alla possibilità di essere felice: "Non era, la sua, comune ritrosia, né difficoltà a rapportarsi agli altri e neppure senso di inadeguatezza, che pure spesso sentiva acutamente; non si trattava di una specificità del suo carattere quanto piuttosto di una sorta di "doppio" che qualche volta si sostituiva a lui. [...] Qualche volta il ragazzo pensava che la sua vita non fosse altro che questo, una continua attesa, fradicia di terrore, dell'arrivo del proprio doppio, l'inevitabile resa alla sua violenza e la faticosa restituzione degli accadimenti di cui era stato vittima a un ordine possibile talmente fragile da sfiorare l'inconsistenza, fondato soltanto sulle patetiche ansie di una fantasia sovraeccitata".
La continua paura che tale doppio possa presentarsi, quindi, lo ha sempre indotto a fuggire da difficoltà e responsabilità, rifugiandosi in un mondo illusorio, in cui ogni ostacolo è già superato. Sullo sfondo vi è il ricordo di una madre che non c'è più da alcuni anni, per la quale il ragazzo prova una infinita nostalgia, un rapporto irrisolto che gli ha lasciato molti sensi di colpa e l'idea che forse solo con lei potesse esserci una vera famiglia, Un ricordo che ritorna continuamente nei pensieri del ragazzo, soprattutto nei momenti di sconforto, quasi un'ancora a cui aggrapparsi.


Emma, la madre del bimbo, ci viene presentata come una ragazza capace di donare sempre un sorriso gentile e di amare gli altri per ciò che sono, inclusi i difetti, le ansie e le piccole ossessioni. Concreta e intelligente, Emma ha dovuto sopportare il peso di una famiglia che non ha fatto altro che bloccarla nell'espressione della propria identità, cercando di imporle le proprie scelte, ritenute più giuste, e tarpandole le ali. In particolare, sua madre si presenta come una figura ingombrante che non esita a far valere sulla figlia la propria esperienza per indurla a seguire le sue convinzioni. Pur se determinata ad affrancarsi da tale prigionia, cercando di seguire le proprie passioni e sentirsi realizzata professionalmente, Emma ne esce fortemente condizionata nell'espressione dei propri sentimenti.
La nascita del bimbo viene, dunque, vista come il momento in cui tutti i contrasti e i conflitti irrisolti vengono alla luce, una prova cruciale in cui i due ragazzi mostrano tutta la loro vulnerabilità. Da un lato, vi è il ragazzo, che vorrebbe fortemente divenire l'artefice della felicità di suo figlio, facendolo crescere nella consapevolezza che il dolore esiste, ma fornendogli tutto l'aiuto necessario per poterlo affrontare, senza rinchiuderlo in una gabbia dorata, in modo che possa divenire forte e in grado di sostenere ogni avversità che il destino vorrà porgli di fronte. È un desiderio che qualsiasi padre proverebbe, quello di rendere un figlio capace di costruire il proprio futuro, ma che deve scontrarsi con le paure del ragazzo, la convinzione di non essere in grado di sopportare una simile responsabilità. Dall'altro lato, c'è Emma, che pur amando i suoi genitori, vorrebbe liberarsi dai loro condizionamenti, dimostrare di essere in grado di crescere e badare a suo figlio, senza vedersi continuamente rinfacciare l'esperienza di sua madre. Vuole mostrare di essere finalmente una madre e non più solo una figlia, in questa sua lotta vorrebbe il ragazzo accanto a sé, libero finalmente dalle sue paure, ma ogni difficoltà diviene fonte di frustrazioni.
"Lotta, battaglia, scontro, conflitto ... parole che disegnavano, o meglio abbozzavano, i contorni, la trama di punti di vista, opinioni, certezze differenti, opposte". Il solco tra generazioni, è questo il tema fondamentale di questo romanzo, un solco che spesso diviene una parete di incomunicabilità e incomprensione, in cui i figli cercano di conquistare la propria identità, il loro essere un'entità separata rispetto ai loro genitori, combattendo contro l'incapacità di questi ultimi di accettarlo.
È un tema fortemente attuale, che tocca sentimenti comuni, rapporti che, almeno in parte, in molti hanno sperimentato. Un argomento che l'autore sviscera fino in fondo, con quella consapevolezza (che ritornerà anche nei suoi successivi scritti) che le scelte compiute, anche senza la volontà di far del male, si ripercuotono necessariamente sugli altri, condizionandone le successive azioni come "un maligno cordone ombelicale che un dio privo di misericordia, o molto più banalmente un infermiere distratto, non si era curato di recidere e che lo teneva legato a un destino minaccioso e terribile come un cumulo di nubi temporalesche".


sabato 24 febbraio 2018

Il libro del mese – “Le coccinelle non hanno paura” di Stefano Corbetta

E sai perché non hanno paura? Perché sono belle, bellissime. E sanno di esserlo. Nessuno ucciderebbe una coccinella”. Teo – il protagonista del bellissimo romanzo di esordio di Stefano Corbetta “Le coccinelle non hanno paura” (Editore Morellini) - non può fare a meno di condividere queste parole, pronunciate da un ragazzino appassionato come lui di fotografia, incontrato casualmente in un parco. E l'idea che la coccinella, grazie alla sua bellezza, possa salvarsi dalla mano minacciosa di chiunque, mi riporta a uno dei temi fondamentali che ho colto in questo romanzo, ovvero che solo sviluppando una propria forza, una propria ricchezza interiore si può andare avanti inseguendo determinati obiettivi e cercando di sconfiggere ogni timore, soprattutto la paura della morte, nella ricerca dell'eternità.
Teo ha una grande passione per la fotografia, sviluppata sin da quando era piccolo e andava in giro osservando e riprendendo ogni angolo della casa da differenti visuali. Questa passione nasconde un segreto, una capacità particolare che rimane per lungo tempo celata agli altri, ovvero la possibilità per Teo di catturare immagini con gli occhi, di inquadrare una scena e immortalarla con il semplice movimento di una palpebra, per poi conservarla, perfettamente intatta, nella propria memoria sensoriale, che si trasforma in un immenso archivio.


È un dono che per Teo si rivela ben presto molto simile a una maledizione, che lo porta a vedere “la muta condanna di tutte le cose”, l'evoluzione successiva, sino alla morte, di qualsiasi essere vivente lui riprenda. E ciò lo spinge a non fotografare mai persone o animali, ma soltanto elementi inanimati e paesaggi.
Teo ha scoperto da poche settimane di avere un tumore al cervello: l'assenza di sintomi ha portato ad un accertamento tardivo, per cui il cancro si è talmente diffuso da non essere più operabile. E a quel punto decide che vi può essere un solo modo per affrontare il poco tempo che gli è rimasto da vivere, ovvero “trattare la faccenda nello stesso modo in cui scatta fotografie: osserva la luce, fa clic e non pensa a nient'altro che non sia la foto successiva”. In questo, dimostra, quindi, una ostinata determinazione nel volere procedere linearmente lungo una traiettoria che non ammette deviazioni, come se stesse giocando una partita a scacchi in cui le strategie si susseguono regolarmente senza discutere, allontanando da sé ogni forma di compatimento.
In questo suo percorso gli unici che possono stargli vicino e assecondare la sua volontà sono i suoi migliori amici, Luca ed Elena, che si conosciuti e innamorati proprio grazie a lui e adesso aspettano un figlio. Soltanto loro sono a conoscenza del reale stato di salute di Teo, ma non riescono ad arrendersi all'idea che il loro amico a breve dovrà abbandonarli.
Eppure qualsiasi strategia, qualunque traiettoria non può non conoscere una deviazione improvvisa che distoglie l'attenzione dal percorso già delineato. E questa deviazione è rappresentata da una persona che Teo non ha mai conosciuto e che non potrà più conoscere, la zia di Elena, Grazia, che, durante il viaggio intrapreso per raggiungere la nipote, viene coinvolta in un incidente mortale. Un evento luttuoso che sconvolge la vita di Teo che “si chiede cosa stia facendo lì a svuotare la casa di una donna che non ha mai conosciuto, tra il pieno e il vuoto di quelle mura a fare lo stesso lavoro che un giorno qualcun altro farà a casa sua”.
A questo punto, il racconto diviene un gioco a incastro, in cui si compongono differenti destini e le vite presenti e passate finiscono per intersecarsi le une con le altre, mentre Teo si sforza di trovare un filo conduttore. Elemento scatenante di questa ricerca è una vecchia fotografia in bianco e nero che ritrae Grazia assieme a un uomo misterioso, una foto contenuta in una cartellina, intestata a un certo Signor P., con alcuni fogli dattiloscritti che Teo ritrova tra le cose di Grazia temporaneamente depositate a casa sua.


L'autore, partendo da questo elemento, ha costruito un solido intreccio narrativo, basato su una scrittura nel complesso immediata e lineare, ma che riserva diverse pagine dense di una poeticità a tratti malinconica, senza mai essere banale o scadere nel patetico, capace di suscitare immagini che si fissano nella mente nitide come fotografie. Corbetta indaga a fondo le sensazioni di Teo nel suo percorso che costituisce l'ultima fase di un'esistenza che non ha fatto in tempo a godere pienamente, in cui cerca di procedere senza sbandare, fuggendo sempre un attimo prima dalla tentazione di cedere alla disperazione e di lasciarsi andare al suicidio.
Nell'intreccio all'improvviso si materializza Arianna, una giovane psicologa temporaneamente impiegata in un negozio in cui Teo si ritrova ad acquistare cinque t-shirt nere, e a cui il romanzo riserva uno spazio speciale, con pagine narrate in prima persona, quasi un diario. Si rivedono pochi giorni dopo l'acquisto, quando Arianna gli restituisce la cartellina del misterioso Signor P. che lui aveva distrattamente dimenticato sul bancone. È, quindi, il caso, o il destino, a farli incontrare di nuovo. E Teo non può evitare di essere conquistato da lei, dalla sua semplicità, dal suo entusiasmo, dalla capacità di percepire i mondi che si celano dietro le parole e di dire sempre qualcosa in grado di destare sorpresa.
La storia tra i due inizia pian piano a farsi strada, delicatamente, tra scambi di vedute sull'arte della fotografia e ricordi lontani di foto in bianco e nero, tra sorrisi e rimpianti. E Teo, inizialmente timoroso di legarsi a lei per il troppo poco tempo che le potrebbe dare, vince le sue resistenze, allarga l'orizzonte della sua consapevolezza e comprende che non può buttar via gli ultimi istanti della sua esistenza. È la malattia a fargli vedere, a un certo punto, le cose con occhi diversi, ma anche l'incontro con il Signor P., ovvero Primo Guerrieri, della cui storia, trascritta in quei fogli, inizia ad appassionarsi, coinvolgendo anche Arianna: il viaggio intrapreso anni prima in un santuario toscano, l'incontro con Grazia, il mistero attorno al diario di un bambino coinvolto nei bombardamenti tedeschi, al termine del secondo conflitto mondiale, presso la Linea Gotica, che tanto sconvolge Primo. Storie racchiuse le une nelle altre come scatole cinesi.
Il Signor P. era stato vinto dagli eventi e dalla propria mente. Teo si sente così simile a quell'uomo da pensare che in fondo anche la sua vita finirà così, senza capirci niente e senza poter reagire, sospeso tra il mondo reale e un soffocato desiderio di rivalsa”. E Teo, reagendo a questo pensiero, quasi per chiudere il cerchio in cui si muovono tutte queste storie, pur nella consapevolezza che la sua forza fisica è ormai esaurita per il repentino progredire della malattia, di quella maligna massa tumorale che si estende sempre di più, non si arrende e va alla ricerca del Signor P.
Dopo aver terminato il romanzo, non posso fare a meno di pensare a quello che mi ha lasciato Teo, uno di quei personaggi di cui si sente la mancanza dopo aver chiuso il libro: il suo desiderio di fuggire da quelle immagini di muta condanna, la sua voglia di eternità, che insegue fotografando il cielo e lasciando in un foglio scritto parole destinate ai suoi cari, e quella sottile speranza, rappresentata da una coccinella che si muove lenta sulla superficie di un finestrino.



domenica 11 febbraio 2018

Un giallo metropolitano tra conflitti sociali e incomunicabilità

Alcune settimane fa ho avuto di modo di rileggere un romanzo dello scrittore Raffaele Crovi cui mi ero già dedicato circa venti anni prima, intitolato "L'indagine di Via Rapallo". Un giallo, quindi, finalista al Premio Strega nell'edizione del 1997, la cui rilettura, oltre a riportarmi indietro nel tempo all'estate dopo la maturità, mi ha svelato e fatto riscoprire nuovi aspetti.
L'indagine si concentra essenzialmente intorno alla morte di uno scrittore, Orio Zaniboni, in apparenza caduto accidentalmente da un balcone. A valutare se si sia trattato di un incidente o di un omicidio viene inviato il vice ispettore Gino Pompei, che si finge cugino del defunto, incaricato di effettuare un inventario dei beni che dovranno formare oggetto di una eredità dello scrittore in favore di un'università.


Pompei, esperto di idraulica, approfitta di tali doti per girare tra gli appartamenti degli otto piani del condominio di Via Rapallo in cui il presunto incidente (o omicidio) è avvenuto. E tra un rubinetto che perde, tubature da riparare e termosifoni che scaldano poco, cerca di scoprire nuovi elementi chiacchierando con gli abitanti di quel palazzo, tra cui spiccano diversi personaggi ambigui e bizzarri.
L'indagine mette in luce una realtà piena di conflitti sociali e di disagio, con condomini che dialogano poco tra di loro e non conoscono quasi nulla l'uno degli altri, vivendo realtà parallele che difficilmente sembrano intersecarsi, se non quando si tratta di lasciarsi andare a ripicche e rivalse.
Tutto ciò accade in una metropoli, Milano, in cui "la solitudine, la mancanza di dialogo familiare e comunitario, genera in molti il cancro della depressione, che suggerisce il corteggiamento della morte".
Il vice ispettore, nel suo peregrinare tra un appartamento e l'altro, incontra, quindi, molteplici personaggi che sembrano abitare pianeti distanti: gli Allegretti, padre e figlio, ladri gentiluomini e forse più sinceri di tanti finti perbenisti; il giovane Felice, ben presto orfano di entrambi i genitori e privo di altri legami di parentela (la nonna, unica familiare, è morta da poco), preso dai suoi studi e avvolto da un alone di mistero assieme alla sua amica Alice; la portinaia Sonia, che sfrutta il sesso e le gravidanze come strategia di sopravvivenza, per sfuggire a una condanna a seguito dell'omicidio del marito; l'infido amministratore.


"In un palazzo urbano non c'è dialogo: c'è l'incontro casuale per le scale o in ascensore che può diventare scontro di avare parole; non ci sono discorsi, ci sono silenzi, invettive o delazioni". E gli inquilini si svelano anche nel loro rapporto con il defunto, quello scrittore impiccione che amava indagare e intromettersi nelle vite altrui, per rinvenire materiale narrativo per un nuovo romanzo sui conflitti urbani oppure, come molti sostengono, con un intento moralizzatore.
L'autore adotta uno stile assai sobrio, quasi cronachistico, e a tratti ironico, nel suo mostrare i resoconti degli incontri quotidiani del vice ispettore. E non manca, forse, qualche stereotipo nella costruzione di alcuni personaggi e di talune vicende.
In particolare, nel romanzo viene introdotta la figura del professore trentenne, Sergio Conti, che rivela di essere omosessuale e viene descritto, secondo un canone di frequente utilizzato in narrativa, come impeccabile amante dell'ordine, un uomo solo, infelice, inquieto, pieno di sensi di colpa, soprattutto dopo il suicidio dei genitori. E per il suo "atteggiamento eccessivamente morbido", uno stereotipo che risente di pregiudizi diffusi ancora oggi, il professore viene respinto dal giovane deejay, Luigi Neirotti, presso cui si era recato per farsi prestare alcuni dischi.
Il Neirotti, descritto come il classico deejay rinchiuso in un suo mondo di musiche, discoteche, luci colorate, riceve, come gli altri, la visita del vice ispettore che, in qualche modo, si convince che il ragazzo sia omosessuale, salvo poi ricredersi (il Neirotti ha un flirt con un'altra ragazza che abita nel palazzo) e toglierlo dalla "lista degli ambigui e, quindi, dei sospettabili". E, a questo punto, non si può fare a meno di chiedersi perchè mai, secondo l'autore, un omosessuale, in quanto tale, debba essere automaticamente incluso nella lista dei sospettati per un omicidio.
Il finale, in ogni caso, non presenta particolari soprese o colpi di scena nella scoperta del colpevole, per cui il romanzo, più che come giallo, è interessante in quanto propone, pur con i limiti sopra evidenziati, un'analisi sociologica con un'indagine dei conflitti e delle ambiguità che caratterizzano quei numerosi microcosmi quotidiani tra loro non comunicanti che si collocano nella realtà metropolitana.